Mercurio. Ma già entriamo nell’Attica: seguimi, e tienti alla mia clamide finchè giungiamo al confine.
Pluto. Fai bene, o Mercurio, se mi conduci per mano: se mi lasciassi, i’ mi sperderei, e tosto incontrerei Iperbolo o Cleone. Ma che è questo rumore, come di ferro che percuota su pietra?
Mercurio. È Timone, che zappa un sassoso campicello su questa costa vicina. Oh! gli sta da presso la Povertà, e la Fatica ancora: c’è la Pazienza, la Saggezza, la Fortezza, e tutta la schiera capitanata dalla Fame. Queste son lance migliori della tue.
Pluto. Perchè non torniamo indietro, o Mercurio? Noi non faremo alcun pro con un uomo accerchiato da tanto esercito.
Mercurio. Giove vuole altramente, non ci mostriamo codardi.
La Povertà. Dove meni cotestui, o uccisore di Argo?
Mercurio. A cotesto Timone siam mandati da Giove.
La Povertà. Ora Pluto a Timone, ora che io, avendolo raccolto frollato dalla mollezza, e confidatolo alla saggezza ed alla fatica, l’ho renduto uomo forte e dabbene? E tanto spregevole vi pare la Povertà, e tanto meritevole d’insulti, che il solo bene ch’io avevo, quest’uomo da me formato alla virtù, voi me lo strappate? Pluto lo riprenderà, lo ridarà in mano all’Orgoglio ed al Lusso, e quando l’avran renduto infemminito, vigliacco, insensato, lo getteranno a me un’altra volta, già fatto uno straccio.
Mercurio. Così vuole Giove, o Povertà.
La Povertà. Me ne vado: e voi, o Fatica, o Saggezza, o tutte voi, seguitemi. Questi tosto conoscerà chi son io che egli perde; compagna alla fatica, maestra di virtù, gl’invigorivo il corpo, gli schiarivo ed aguzzavo la mente; lo feci viver da uomo, ripensare a sè stesso, conoscere le superfluità e spregiarle.
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