Gnatonide. E tu sempre col motto. Ma dov’è il banchetto? T’ho portato un canzoncino novello, dei ditirambi che ho imparati freschi freschi.
Timone. Un’elegia canterai ben patetica sotto questa zappa.
Gnatonide. Che è? tu mi batti, o Timone? Accorrete, testimoni. Ahi, ahi! Ti accuserò all’Areopàgo, che m’hai ferito.
Timone. Se rimani un altro momento m’accuserai che t’ho ucciso.
Gnatonide. No; ma sanami la ferita, ungendola con un po’ d’oro, che è mirabile ristagnativo del sangue.
Timone. E non mi ti togli dinanzi?
Gnatonide. Vado via: ma tu ti pentirai d’esser ora sì bestiale, di sì buono che eri.
Timone. E quel zuccone? Oh, è Filiade, il più sfacciato degli adulatori. Questi si prese da me un podere, e due talenti in dote alla figliuola, in premio delle più sperticate lodi che ei mi diede una volta che io cantai, e tutti tacevansi, ed egli solo mi lodò, e giurò che io avevo voce più soave dei cigni. Non ha guari io era malato, andai a chiedergli un soccorso, e il valentuomo mi scacciò a pugni.
Filiade. Vergogna! ora riconoscete Timone? ora Gnatonide gli è amico e commensale? Gli sta bene a quell’ingrato. Noi familiari, d’una età, d’una tribù; e pure io gli ho un riguardo, per non parere d’andare ad investirlo, io. Salute, o signore: guárdati da questi parassiti osceni, corbacci che aliano solo intorno alle mense. Già ora non si può fidare in nessuno uomo: tutti ingrati e malvagi. Io ti portava un talento per qualche tuo bisogno, ma per via ho saputo che sei divenuto oltre misura ricchissimo.
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