Timone. La non è sconficcata: anche questa accusa è stolta.
Demea. Sarà sconficcata dipoi, intanto tu già t’hai preso quel che v’era dentro.
Timone. Ed eccotene un’altra.
Demea. Ahi, ahi le spalle!
Timone. O cessa di latrare, o rinterzo. Saria nuova cotesta, che io, il quale senz’armi ho tagliati a pezzi due squadre di Lacedemoni, non potrei scuotere un poco i panni ad un omiciattolo. E che vincitore di lotta e di pugilato sarei io? Ma chi è quest’altro? non è il filosofo Trasiclete? proprio desso. Lo riconosco alla barba sciorinata, alle sopracciglia aggrottate, a quel borbottare fra sè, a quell’occhio spaventato, a quelle chiome scomposte e sparte indietro, sì che parmi il vento Borea o il Tritone di Zeusi. Questi che all’andare è sì modesto e sì dimesso nel vestire, il mattino spaccia mille pappolate su la virtù, biasima chi si lascia vincere ai piaceri, e loda a cielo la frugalità: ma la sera quando dopo il bagno va a cena, ed un servo gli mesce una gran coppa del pretto, che a lui piace assai, come se bevesse l’acqua di Lete, sdimentica i bei discorsi del mattino, gettasi come nibbio su le vivande, dà gomitate al vicino, s’imbratta la faccia di sanguinacci, insacca, divora come cane, e curvato sul piattello, come se dovesse trovarvi dentro la virtù, lo netta col dito pulitissimamente, per non lasciarvi briciolina di salsa. Per questa gola sfondata ogni porzione è piccola, dice sempre che è poco ancorchè si afferri egli solo tutta la focaccia ed il porchetto; e quando è briaco fradicio, non si contenta di cantare e di ballare, ma dice villanie ed insulti a tutti; con una tazza in mano non finisce di parlare di temperanza e di modestia; finchè gli monta il vino, gli si rappallottolano le parole in bocca ridevolmente, e fa l’epilogo con un vomito: e quando i servi lo levan di peso per portarlo altrove, ei va brancicando qualche sonatrice di flauto.
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