Tosto discenderà l’aquila a roderti il fegato, e così avrai tutta la ricompensa delle tue ingegnose invenzioni.
Prometeo. O Saturno, o Giapeto, o Terra madre mia, mirate che soffro io infelice, che non ho fatto alcun male.
Mercurio. Non hai fatto alcun male, o Prometeo? Primamente quando avevi l’uffizio di spartire le carni, facesti parti ingiuste e l’inganno di serbare il meglio per te, e di mettere innanzi a Giove ossa nascoste sotto bianco grasso. Mi ricorda che Esiodo ha detto così. Dipoi hai formati gli uomini, maliziosissimi animali, specialmente le donne. Infine hai rubato il fuoco, possessione preziosissima degli Dei, e l’hai dato agli uomini. Hai fatti questi gran mali, e dici che sei incatenato senza veruna colpa?
Prometeo. Pare, o Mercurio, che anche tu, come dice il poeta, incolpi un incolpabile: che mi accusi di tali cose per le quali, se vi fosse una giustizia, io sarei giudicato degno d’essere nutrito dal pubblico nel Pritaneo. Se tu avessi tempo, io vorrei chiarirti come son false queste accuse, e dimostrarti come Giove è ingiusto verso di me. E tu che sei sì bel parlatore e difensore di cause, difenderai poi anche questa, sì, dirai che ha fatto un giudizio giusto, a mettermi in croce presso queste porte Caspie, sul Caucaso, e farmi miserando spettacolo a tutti gli Sciti.
Mercurio. Troppo tardi, o Prometeo, vuoi appellarne, e senza pro: ma di’ pure; tanto è, io debbo rimaner qui finchè non discenda l’aquila a conciarti il fegato; mi piace d’impiegar questo tempo a udir ragionare un sofista sì scaltrito come se’ tu.
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