Mercurio. Vi guiderò io, che ho pratica dell’Ida: chè quando Giove amoreggiava quel suo garzoncello Frigio, io ci venni molte volte per suo comando a spiare il fanciullo: e quando egli era nell’aquila, io volavo con lui, e l’aiutavo a portar quel suo vago: e se ben mi ricorda, appunto da questo sasso ei lo ciuffò. Stava il fanciullo presso la greggia e fistoleggiava, Giove di dietro piombagli addosso, abbrancalo con gli artigli lievemente, e col becco tienegli la tiara sul capo, ed ei così traportato tremava, e torceva il collo per riguardarlo. Io allora raccolsi la fistola, che gli era caduta per la paura. Ma ecco il vostro giudice: andiamo a fargli motto. Salve, o mandriano.
Paride. Salve anche tu, o giovanetto. Chi sei, che qui vieni a noi? E chi sono queste donne che meni? Di così belle non sogliono andare pei monti.
Mercurio. Non sono donne elle, o Paride. Tu vedi Giunone, e Minerva, e Venere, e me che sono Mercurio; e ci ha mandati Giove. Ma perchè tremi e impallidisci? Non temere: non è male alcuno. Ei comanda che tu sia giudice della bellezza loro, e ti dice: Perchè tu sei bello, e sai tutte a dentro le cose d’amore, io affido a te questo giudizio. Saprai il premio di questa lite, leggendo la scritta che è su questo pomo.
Paride. Dammi, vo’ leggerla; dice: La bella l’abbia. E come, o potente Mercurio, potrei io, che sono mortale e boscaiuolo, esser giudice di bellezza sì maravigliosa, che neppur cape nella mente d’un mandriano? Piuttosto i delicati cittadini potriano fare questo giudizio; che io per l’arte mia potrei solo discernere tra capra e capra qual’è la più bella, e tra giovenca e giovenca.
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