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      Gli indovini, gli astrolaghi, i disfinitori dei sogni, i Caldei, ed Apollo stesso ora facevano prevalere Aristea, ora Mirico: ed i talenti ora in questa, ora in quella coppa della bilancia traboccavano.
      Diogene. Ma il fine qual fu, o Crate? egli è da udire.
      Crate. Ambedue morirono in un giorno: e le due eredità vennero ad Eunomio e Trasiclea, due loro congionti ai quali non era stata mai predetta questa buona ventura. Navigando essi da Sicione a Cirra, a mezzo del cammino dieder di traverso nel Japigio, e travolsero giù.
      Diogene. E loro stette bene. Noi, quando eravamo in vita, non pensammo mai a siffatte cose tra noi: nè io mai desiderai la morte ad Antistene per ereditarne il bastone, che era di fortissimo oleastro; nè pensomi che tu, o Crate, desiderasti mai ch’io morissi per ereditare la mia ricchezza, la botte, e la bisaccia con entro due misure di lupini.
      Crate. Io non avevo bisogno di questo, e neppure tu, o Diogene. Quello di che avevamo bisogno, tu l’ereditasti da Antistene, ed io da te; e l’è cosa più grande e più preziosa del regno dei Persi.
      Diogene. Quale dici?
      Crate. Sapienza, frugalità, verità, libertà, franco parlare.
      Diogene. Sì, per Giove, mi ricorda che questa ricchezza io ricevetti da Antistene, l’accrebbi, e la lasciai a te.
      Crate. Ma di questa gli altri non si curano, nessuno ci faceva carezze per ereditarla da noi: all’oro riguardavano tutti.
      Diogene. E con ragione. Se l’avessero da noi ricevuta non avrebbero potuto contenerla, perchè colano per ogni parte e son fradici, come ceste imputridite.


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Primo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1861 pagine 494

   





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