Ancor giovanetto venni al regno, e trovatolo sconvolto, lo ricomposi, e punii gli uccisori di mio padre: dipoi avendo atterriti i Greci con la rovina di Tebe, ed eletto da essi a loro capitano, non istetti contento a difendere il regno de’ Macedoni, e a serbar quello che m’aveva lasciato mio padre, ma avvisando col pensiero a tutta la terra, e non avendo posa s’io non la conquistassi tutta, con pochi prodi entrai in Asia. Sul Granico vinsi grande battaglia: mi vennero a mano la Lidia, la Ionia, la Panfilia, e camminando sempre e vincendo giunsi su l’Isso, dove Dario m’aspettava con un esercito di molte migliaia. Ed allora, o Minosse, voi sapete quanti morti io vi mandai in quel giorno solo: il nocchiero dice che allora non bastò la barca per essi, e che molti composero certe zattere e passarono. E tutte queste imprese io feci mettendomi ai maggiori pericoli, e ricevendo anche ferite. Non ti dirò quel che feci a Tiro e ad Arbela; ma che giunsi sino agl’Indi, feci l’Oceano confine del mio impero, presi elefanti, superai Poro, e valicato il Tanai, vinsi in equestre battaglia gli Sciti guerrieri formidabili: beneficai gli amici, fui terrore ai nemici. Se gli uomini mi credettero iddio, non è a maravigliarsene, perchè mi videro far cose grandi e mirabili. Infine io morii da re, e costui da profugo presso Prusia di Bitinia, e come conveniva al furbo e spergiuro che egli era. Non dirò con quali arti egli vinse gl’Italiani: non col valore, ma con la malvagità, la perfidia, gl’inganni, senza scerner sacro da profano.
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