S’era gettato per terra, e non c’era verso che si volesse levare, ma il buon Mercurio lo levò di peso e lo portò sino alla barca. Io me ne ridevo.
Antistene. Ed io quando discesi non mi mescolai agli altri, ma lasciandoli piangere corsi alla barca, e mi allogai nel miglior sito. Nel tragitto essi lagrimavano e vomitavano: ed io mi compiaceva a mirarli.
Diogene. Voi trovaste per via questi compagni: con me discesero Blepsia l’usuraio del Pireo, Lampide d’Acarnania condottiero di soldati, e Damide quel ricco di Corinto. Damide era morto avvelenato dal figliuolo, Lampide per amore della cortigiana Mirtia s’era ucciso da sè stesso, e Blepsia dicevasi esser morto miseramente stecchito di fame, e ben pareva, chè era pallido e magrissimo. Io, com’è uso, dimandava a ciascuno in che modo era morto; ed a Damide che ne dava la colpa al figliuolo, io dissi: Ti sta bene: avevi mille talenti e tutti i piaceri per te che eri di novant’anni, e ad un giovane di diciotto non davi quattr’oboli a portarli in tasca. E tu, o Acarnano (anch’egli dolevasi, e mandava maledizioni a Mirtia), a che incolpi amore, e non te? tu che non temesti mai nemici, ma coraggioso combattevi innanzi agli altri, ti lasciasti prendere dalle finte lagrimette e dai sospiri d’una sgualdrinella. Ma Blepsia, prima ch’io dicessi, biasimava la sua pazzia a serbar tanta ricchezza per un erede che non gli apparteneva, e a credere scioccamente che dovesse vivere sempre. A me poi diedero molto diletto quei loro lamenti. Ma già siam presso all’entrata: or bisogna riguardare ed osservare quelli che vengono.
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