Partiti dal tribunale, venimmo al luogo dei supplizi. E quivi, o amico mio, era una gran pietà a udire e vedere. S’udiva insieme il suono de’ flagelli, e i pianti di quelli che erano bruciati dal fuoco, e rumore di catene, di ceppi, di ruote: la Chimera li lacerava, Cerbero li squartava, ed eran tutti confusi e misti re e servi, satrapi e poveri, ricchi e mendichi; e tutti maladivano ciò che avevano fatto. Guatando riconobbi alcuni che già m’erano noti, e morti da poco: si nascondevano e voltavano la faccia; e se mi guardavano mi volgevano certi sguardi abietti e supplichevoli, essi che erano stati sì superbi e sprezzanti nella vita loro. Nondimeno ai poveri era rimessa metà della pena: avevano alquanto posa, e poi di nuovo al castigo. Ci vidi ancora quelli delle favole, ed Issione, e Sisifo, e il frigio Tantalo che era proprio male arrivato, e Tizio figliuolo della terra, che, oh quanto era! giaceva immenso sopra grande spazio. Trapassati oltre, entrammo nel campo Acherusio, e quivi trovammo i semidei, e le eroine, e l’altra turba de’ morti, distinti per popoli e per tribù; alcuni vecchi, intarlati, e, come dice Omero, vanenti; altri ancor freschi ed interi, specialmente gli egiziani, perchè bene insalati. Discernere ciascuno non era cosa facile, perchè tutti simili tra loro, tutti ossa spolpate: pure dopo molto riguardare ne riconobbi alcuni. Era una folta di oscuri, ignoti, senza nessun segno dell’antica bellezza: e a veder tanti scheletri in tanti gruppi, e tutti simili, che con le vuote occhiaie terribilmente guardavano, e mostravano i denti sgrignuti, io mi confondevo a che riconoscere Tersite dal bel Nireo, il mendico Iro dal re dei Feaci, il cuoco Pirria da Agamennone; perchè non serbavano più alcun segno per essere riconosciuti, ma tutti erano ossa nude, e senza nome; e nessuno più avria potuto distinguerli.
| |
Chimera Cerbero Issione Sisifo Tantalo Tizio Acherusio Omero Tersite Nireo Iro Feaci Pirria Agamennone
|