Mercurio. Sono città quelle che tu prendi per topaie.
Caronte. Sai, o Mercurio mio, che abbiam fatto un buco nell’acqua a trasportar qui il Parnaso con tutto il fonte Castalio, e l’Oeta, e le altre montagne?
Mercurio. E come?
Caronte. Io non distinguo niente da questa altezza. Non volevo vedere io le città solamente e le montagne, come in una pittura, ma gli uomini e ciò che fanno e ciò che dicono, come facevo testè quando mi hai incontrato che ridevo, e mi hai dimandato perchè ridevo. Avevo udito una cosa piacevole assai.
Mercurio. E quale?
Caronte. Uno invitato a cena da un amico pel dimani, Verrò senza meno, disse: e mentre parlava, un tegolo, non so come, staccasi dal tetto, gli cade in capo, e l’ammazza. Io ridevo perchè colui non poteva adempiere alla sua promessa. Parmi dunque ch’io debba discendere per meglio vedere e udire.
Mercurio. Sta’ cheto: ci rimedierò io, e ti darò subito una vista acutissima con alcune parole incantate d’Omero. E quando avrò recitato le parole, ricòrdati che devi sbirciar tutto bene e chiaro.
Caronte. Di’ pure.
Mercurio. La caligin che gli occhi ti coprivaIo la disperdo, acciò tu ben conosca
E i numi ed i mortali.
Che è? vedi ora?
Caronte. Maravigliosamente. Linceo è cieco rispetto a me. Ora spiegami ogni cosa, e rispondi alle mie dimande. Ma vuoi ch’io ti dimandi co’ versi d’Omero, per mostrarti che Omero lo so anch’io?
Mercurio. E donde l’hai appreso tu povero barcaiuolo?
Caronte. Oh, non parlar male dell’arte mia. Chè io quando lo tragittai dopo la sua morte, l’udii cantar molti versi, e d’alcuni me ne ricordo ancora.
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