Quei che litigano pe’ confini d’un podere, vedi quanti sono, e quanti ammassano ricchezze; poi, prima di goderle, son chiamati da quei messi ed ambasciatori che t’ho detto.
Caronte. Vedo ogni cosa, e tra me penso: che dolcezza trovano questi nella vita? e di qual bene son privati che la rimpiangono tanto? Se si pon mente ai re, che son tenuti essi i più felici (lasciamo da banda l’instabilità ed il capriccio della fortuna), si troverà che essi hanno assai più di amarezze, che di dolcezze, e sono sempre in mezzo a timori, agitazioni, odii, insidie, sdegni, adulazioni; fuori de’ dolori, delle malattie, delle passioni che regnano sovr’essi come su gli altri. E se la condizion loro è sì trista, figúrati quella dei privati. Io voglio dirti, o Mercurio, a che mi paiono simili gli uomini, e tutta la vita loro. Hai veduto mai le bolle che si levan nell’acqua sotto la cascata d’un torrente? quelle bollicine che compongono la schiuma? Alcune di esse son piccine e subito si rompono e vaniscono, ed alcune durano un poco più, confondendosi con altre crescono e gonfiano molto, e infine scoppiano anch’esse, chè nessuna può durare. Così è la vita degli uomini. Fortuna soffia, e tutti si levano, qual più, qual meno; chi per poco serba quel breve gonfiore, chi come si leva, si posa: tutti debbono rompersi e svanire.
Mercurio. M’hai fatto un paragone, o Caronte, non inferiore a quello che fa Omero tra gli uomini e le foglie.
Caronte. Eppure, o Mercurio, vedi che fanno, e come contendono tra loro per aver signorie, e onori e possessioni, e tante altre cose che pur dovranno lasciare, e scendere tra noi non portando seco altro che un obolo.
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