Vuoi tu, giacchè siamo su quest’altura, ch’io gridando a gran voci li ammonisca di cessare da fatiche vane, e di vivere avendo sempre la morte innanzi agli occhi, dicendo: O stolti, a che v’affaticate tanto? smettete, chè la vita è breve, e niente di quello che ora tanto vi piace è eterno, niente porta seco chi muore, ma ci vien nudo: la casa, il campo, l’oro è tutta roba altrui, e muta sempre padrone. Se io gridassi loro così, non credi tu ch’io farei gran pro agli uomini, e che diventeriano più sennati?
Mercurio. O mio Caronte dabbene, tu non sai come l’ignoranza e l’errore li hanno ridotti. Neppur con un succhiello foreresti loro le orecchie, chè l’hanno turate con la cera, come fece Ulisse ai compagni per timore che udissero il canto delle Sirene. Come potrebbono ascoltarti, se anche gridassi a scoppiarne? Quel che Lete fa ai morti, l’ignoranza fa ai vivi. Ben pochi sono quelli che non hanno la cera negli orecchi, che si piegano alla verità, che veggon chiare le cose e conoscono quali esse sono.
Caronte. E se gridassi a costoro?
Mercurio. Per dir che? ciò che già sanno? è soverchio. Li vedi come vanno solitarii, come ridono delle cose umane, e infastiditi di esse, si sono già deliberati di fuggir la vita, e venirsene tra noi? Sono odiati perchè riprendono l’altrui stoltezza.
Caronte. Fatevi cuore, o generosi. Ma sono ben pochi, o Mercurio.
Mercurio. Anche pochi bastano. Ma discendiamo ora.
Caronte. Deh, dimmi un’altra cosa sola, o Mercurio; e poi mi avrai detto e mostrato tutto: fammi vedere i luoghi dove ripongono i morti per sepellirli.
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