Caronte. Non sono grandi queste tombe, o Mercurio. Ma mostrami quelle città famose, di cui ho udito tanto parlare laggiù, Ninive di Sardanapalo, e Babilonia, e Micene, e Cleona, e specialmente Troia: chè mi ricorda di averne tragittati tanti che venivan da Troia, che per dieci anni non tirai a riva la barca nè la racconciai.
Mercurio. Ninive, o barcaiuolo mio, è distrutta, non ne resta vestigio, non si sapria dire dov’era. Babilonia è quella, la turrita, con la cerchia delle grandi mura, e tra poco anch’essa sarà invano cercata come Ninive. Micene poi e Cleona mi vergognerei a mostrartele, e specialmente Troia; chè tu forse ammazzeresti Omero, ricordandoti con che pompose parole ei le descrive. Fiorirono un tempo, ed ora son morte anch’esse; perchè, o navicellaio, le città muoiono come gli uomini; e quel che è più mirabile, muoiono gl’interi fiumi: in Argo non rimane neppure il letto del fiume Inaco.
Caronte. Oh! perchè, o Omero, davi quegli epiteti sperticati, il sacro Ilio dalle larghe piazze, la ben costrutta Cleona? Oh, chi son quelli che mentre noi parliamo, fanno guerra? e perchè s’ammazzano fra loro?
Mercurio. Sono Argivi e Lacedemoni: e quel mezzo morto è Otriade capitano di Sparta, che sovra un trofeo scrive col suo sangue la vittoria.
Caronte. E perchè, o Mercurio, si fanno guerra?
Mercurio. Per quel campo sul quale combattono.
Caronte. Folli! che non sanno che se anche ciascuno di loro possedesse tutto il Peloponneso, appena otterrebbe da Eaco un piede di luogo. Un tempo altri lavoreranno questo campo, e dalla profonda terra solleveranno con l’aratro anche le rovine del trofeo.
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