E di Giunone cantano una cosa simile, che senza mescolarsi con alcuno, e come fecondata da un vento, procreò Vulcano, nato con la mala ventura, artigiano e fabbro tutta sua vita, affumicato, bruciato da scintille, e senza neppure i piè sani; che ei divenne zoppo per la caduta quando Giove lo gittò dal cielo; e se quella buona gente di Lenno non lo avessero raccolto mentre ei ruzzolava giù, ei ci saria morto Vulcano, come Astianatte precipitato dalla torre. Eppure i guai di Vulcano son niente verso quelli del povero Prometeo. Chi non conosce ciò che questi patì per avere amato di troppo gli uomini? Giove lo trascinò nella Scizia, lo crocifisse sul Caucaso, e sovra gli pose un’aquila che ogni giorno gli rodeva il fegato. Questa fiera pena ebbe quel disgraziato. E Rea (oh! si può dire anche questo!) che pazzie, che vergogne non fa, e benchè vecchia, e decrepita, e madre di tanti Dei, pure pazza d’amore e di gelosia, conduce seco sul carro tirato dai leoni il suo Ati che non può più soddisfarla? Or dopo questo esempio chi potria biasimare Venere di tante fusa torte che fa, e la Luna che spesso discende a trovare Endimione, lasciando a mezzo il suo corso?
Ma lasciamo questo discorso e montiamo al cielo con una volata poetica per la via d’Omero e d’Esiodo, e vediamo come stanno le cose lassù. Le mura sono tutto bronzo: l’ha detto Omero da tanti anni. Come uno sale, e leva un po’ il capo, e s’avvicina alla volta celeste, la luce apparisce più splendida, il sole più puro, le stelle più lucenti, il pavimento d’oro, ed ogni cosa è una dolcezza.
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