Platone. E noi ti possiamo rispondere anche con versi di Omero. Odi:
Dacchè a man ci venisti, o detrattore,
Non pensare a fuggir, nè far promesse.
Luciano. Ohimè, misero! non mi giova Omero, che era mia maggiore speranza. Ricorro ad Euripide: mi salvasse egli!
Deh non m’uccider, chè nefanda cosa
È tor la vita a un supplicante.
Platone. E questo non è anche d’Euripide?
Non è mal che mal soffra chi mal fece.
Luciano. Dunque ora per vane parole mi uccidete?
Platone. Sì, per Giove, egli stesso dice:
Le lingue che sfringuellano,
E che le leggi sprezzanoHan fine deplorabile.
Luciano. Or bene, giacchè ad ogni modo volete uccidermi, ed io non trovo alcuna via di scampo, deh, ditemi almeno chi siete voi, e che grande offesa io vi ho fatta, chè voi siete sì fieramente sdegnati con me, e mi menate a morte?
Platone. Che offesa hai fatta a noi? dimandane a te stesso, o malvagio, ed a quel tuo bello scritto, nel quale calunnii la filosofia, e fai tanti dispregi a noi, mettendo all’incanto, come in un mercato, uomini sapienti, e, quel che più è, liberi. Però sdegnati, siamo venuti su a punirti (avendone chiesto permesso a Plutone) Crisippo che è questi, ed Epicuro, ed io Platone, e quegli Aristotile, e Pitagora che è colui che si tace, e Diogene, e tutti quelli che tu hai lacerati in quella tua scrittura.
Luciano. Respiro: voi non mi ucciderete più se saprete chi sono stato io per voi. Gettate via i sassi: ma no, riteneteli; li userete contro chi merita d’esser lapidato.
Platone. Tu la pigli a gabbo: tu oggi devi morire, e fra poco
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