Onde si volgono indietro, come gli amanti disperati, e da lunge riguardano le cose che sono nella luce, come faceva questo sciocco che per la via se n’è fuggito, ed ora ti noiava con tante preghiere. Ma io che non aveva niente di buono nella vita, nè campi, nè case, nè oro, nè arnesi, nè gloria, nè immagini, naturalmente io ero pronto a lasciarla: e ad un sol cenno di Atropo, ho gettato allegramente la lesina e lo spago (chè aveva per mano una scarpetta), e saltando così scalzo come mi trovavo e senza neppur lavarmi la faccia, io l’ho seguita, anzi l’ho preceduta, guardandomi sempre innanzi, perchè dietro niente mi richiamava nè mi faceva rivolgere. Per Giove! io vedo che tra voi si sta meglio assai. L’esser tutti eguali, e nessuno differire da un altro, parmi una consolazione grande. E credo che nessuno c’è perseguitato per debiti, e non si paga imposte: e il meglio è che non si sente freddo, non si cade malato, non si è battuto dai prepotenti. Che pace, che felicità! rovescio di quel mondaccio: qui noi poveri diavoli ci ridiamo, e i ricchi ci piangono.
Cloto. Infatti da molto tempo io t’ho veduto ridere, o Micillo: che cosa ti moveva il riso?
Micillo. Dirottelo, o mia veneratissima dea. Lassù abitando io vicino al tiranno, e rimirando tutto ciò che gli era intorno, io lo credevo essere eguale ad un dio. Beato lui, dicevo, vedendolo vestito del fior della porpora, seguito da tante genti, in palazzo sfoggiato d’oro, con vasellame tempestato di gioie, con letti co’ piè d’argento: l’odore delle vivande apprestate pe’ suoi banchetti mi faceva venir l’acquolina: ond’ei mi pareva un uomo sovrumano e strafelicissimo, e quasi più bello e più alto degli altri un buon cubito: levato in alto dalla fortuna, camminava superbo, pettoreggiavasi, metteva paura e reverenza in tutti.
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Atropo Giove Micillo
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