Ma poi che morì, oh! quanto mi parve ridicolo, dispogliato di quello sfarzo! anzi quanto risi di me stesso che allibivo innanzi a questo verme, giudicandolo felice dal fumo delle sue vivande, e dalle sue vesti tinte nel sangue delle conchiglie del mar di Laconia. E ridevo non solo per costui, ma per l’usuraio Guifone vedendolo piangere e pentirsi che non si ha goduto le sue ricchezze, e senza neppur toccarle se n’è morto, lasciando tutto il suo allo scapestrato Rodocare, che gli era il più stretto parente e dalla legge chiamato a succedergli. Nè posso finire le risa, specialmente quando mi ricordo come egli era giallo e lurido, e sempre pensava e strolagava, ricco alle sole dita, con le quali contava i talenti e le miriadi, raccogliendo a poco a poco una ricchezza, che in breve il fortunato Rodocare dovrà sparpagliare. Ma perchè non si parte, noi? Nel tragitto avremo altro da ridere udendo lamentar costoro.
Cloto. Imbárcati: acciocchè il navicellaio levi l’áncora.
Caronte. Dove vai tu? La barca è già piena. Rimanti costà: dimani per tempo ti passerò.
Micillo. Questa è un’ingiustizia, o Caronte, lasciar qui un morto di ieri che già pute: io t’accuserò a Radamanto. Misero me! se ne vanno, ed io rimango solo qui. E perchè non mi gitto a nuoto appresso a loro? Che posso farmi? affogare per istanchezza, s’io son morto? E poi i’ non ho neppure l’obolo pel nolo.
Cloto. Che fai? Aspetta, o Micillo: non è lecito che tu passi così.
Micillo. Oh, io forse arriverò prima di voi.
Cloto. No, no: avviciniamoci noi, prendiamolo: e tu, o Mercurio, tiralo su.
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