XIX.
DI UNO SBAGLIO IN UN SALUTO.1
È difficile a chi è uomo sfuggire la violenza d’un dio: e molto più difficile è trovar parole per iscusare uno sbaglio impensato ed a cui t’ha spinto un dio. L’una cosa e l’altra ora è accaduta a me, che venuto a salutarti di mattino, invece di dirti godi, come s’usa, bellone e smemorato di me, ti dissi sta’ sano; che è anche una parola di buon augurio, ma non opportuna, nè da mattina. Come la mi scappò mi vennero i sudori, arrossii, e mi confusi: gli astanti dovettero credermi chi ammattito, chi imbarbogito dall’età, chi che non avevo smaltito ancora il vino della sera: benchè tu la pigliasti in buona parte, e neppure con un leggiero sorriso notasti l’errore della lingua. Onde io voglio scrivere una consolatoria per me stesso, per non affliggermi troppo di questo sbaglio, e non darmi a credere che io poi ho errato tanto, se vecchio come sono ho detto una sconvenienza innanzi a tante persone: una difesa non bisogna, perchè non m’è sfuggita dalla lingua una parola cattiva. Cominciando a scrivere mi pareva d’essermi abbattuto in un problema insolubile; ma procedendo innanzi ho trovato molte cose a dire. Nondimeno voglio prima dire alcune cosette necessarie intorno al godi, al prospera, allo sta’ sano.
Il godi è l’antico saluto, non pure mattutino, e del primo incontro, ma usato anche tra quelli che non si erano prima veduti: come,
Godi, o signor della Tirintia terra.
E dopo cena discorrendo tra il bere,
Godi, Achille, di simili vivandeNon abbiamo bisogno,
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Tirintia Achille
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