Troppo presto, o Licino.
Licino. Alla vegnente olimpiade?
Ermotimo. Anche presto: si tratta di esercitar la virtù, e di possedere la felicità.
Licino. Via, dopo due olimpiadi, al più. Voi fate cader le braccia con cotesta lentezza, se non potete giungervi in tanto tempo, in quanto si potria andare e tornare tre volte dalle colonne d’Ercole all’India con tutta comodità, e visitando in tutti i paesi che sono di mezzo. Ma quanto dobbiam mettere che sia alta e ripida cotesta ròcca sovra cui sta di casa la vostra virtù, cotesto Aorno,(9) che pure Alessandro in pochi giorni espugnò?
Ermotimo. Non v’è paragone, o Licino: la non è cosa, come tu credi, che si faccia in poco tempo: la non è ròcca che si espugni, anche se l’assalissero mille Alessandri: chè molti vi monterebbero. Ora non pochi prendono a salire gagliardamente, e montano chi più chi meno: ma a mezza via trovandosi smarriti ed impacciati, si stancano, allenano, e si rivoltano trafelati e rotti dalla fatica. Quelli che durano sino alla fine, quelli pervengono su la cima: e da quel punto diventano beati, vivendo la rimanente vita in una felicità inestimabile, e guardando da quell’altezza gli altri giù come formiche.
Licino. Bene, o Ermotimo! ci fai proprio piccini, e neppur quanto i Pigmei, ma ci schiacci interamente a terra. Hai ragione: ti sei levato tanto su, e pensi alto: e noi povero volgo, che strisciam su la terra, dopo gli Dei, veneriamo voi altri che state su le nuvole, dove siete già saliti come volevate.
Ermotimo. Se fossi salito, o Licino! ma mi rimane molto.
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