Licino. Naturalmente non lo dicevano i loro avversari.
Ermotimo. No.
Licino. Lo dicevano dunque gl’ignoranti?
Ermotimo. Sì.
Licino. Ve’, che torni a canzonarmi, e non mi dici il vero, ma credi di parlare con un Margite, il quale possa inghiottirsi che Ermotimo, uomo di senno e di quarant’anni allora, nel giudicare della filosofia e dei filosofi, sia stato alla opinione della gente ignorante, e secondo le costoro voci abbia fatta la sua scelta, e giudicato di tanti valenti uomini? Va’, non ti credo quando dici questo.
Ermotimo. Ma sappi, o Licino, che io non istavo pure al giudizio altrui, ma al mio. Perchè li vedevo con andar decoroso, vestire modesto, facce sempre pensierose e maschie, tonduti, senza nissuna mollezza, e senza cadere nella trascuratezza balorda e sordida dei cinici, ma starsi in quel mezzo che da tutti si dice ottimo.
Licino. E non li vedevi fare ciò che testè ti dicevo che io ho veduto fare dal tuo maestro, o Ermotimo? come a dire prestare ed esigere usure scannate, andare accattando brighe, far sempre i ringhiosi, e tutte le altre belle virtù che mostrano? O questo per te è nulla verso il vestito grave, la barba folta, la zucca rasa? Per l’avvenire adunque avrem questa regola e questa bilancia esatta, che Ermotimo dice; che dall’andare, dal vestire, e dal zuccone dovrem conoscere gli ottimi? e chi non ha queste cose, chi non ha un che di torbido e di accigliato nel viso sarà da scartare e sputarlo? Tu vuoi la baia del fatto mio, o Ermotimo; e vuoi provare se m’accorgo che mi canzoni.
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