Andati da Momo, che avevano scelto ad arbitro, questi sguardò l’opera di ciascuno, e trovatevi certe maccatelle che non occorre dire, biasimò questo difetto nell’uomo, e riprese Vulcano di non avergli fatta una finestrella nel petto, affinchè aprendola potessero tutti conoscere quello che ei vuole e pensa, e se ei dice il vero o il falso. Ma Momo aveva la vista corta, e però giudicava così degli uomini: tu che l’hai più acuta di Linceo, vedi anche a traverso il petto ciò che v’è dentro: per te tutto è aperto, e conosci non pure ciò che ciascuno vuole e pensa, ma chi è migliore o peggiore.
Ermotimo. Tu scherzi, o Licino. Con l’aiuto d’un dio ho scelto bene, e non mi pento della mia scelta: questo basta per me.
Licino. Ma non dirai che basti a me. Ed avrai cuore di vedermi confuso nel volgo degli sciocchi?
Ermotimo. Perchè a te non quadra nulla di ciò che io dico.
Licino. No, caro: se’ tu che non vuoi dir nulla che mi quadri. Ma giacchè tu mi fai lo scemo, per un po’ d’invidia che io non diventi filosofo come te, tenterò io, come posso, di trovare un modo da giudicare esattamente di queste cose, e scegliere sicurissimamente una setta. Odi anche tu, se vuoi.
Ermotimo. Ben voglio, o Licino: che forse dirai tu qualche bella cosa.
Licino. Oh, non ridere se io piglierò qualche granchio facendo questa ricerca, da uomo ignorante che io sono: io non posso altramente: n’hai colpa tu, che sai il buono e non vuoi dirmelo. Sia dunque la virtù come una città che abbia i felici suoi abitatori (come diria il tuo maestro, che ci è venuto di là) tutti cime di sapienti, costanti, giusti, prudenti, e poco meno che Dei.
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