Le ribalderie che sono fra noi, rapire, opprimere, ingannare, in quella città neppure per sogno: ma ci si vive in pace ed in concordia grande. E naturalmente: perchè, pensomi, le cagioni che nelle altre città fan nascere le discordie e le sedizioni, e per le quali la gente si mangiano vivi l’un l’altro, quivi non sono affatto: non c’è più nè oro, nè piaceri, nè onori, nè distinzioni: anzi queste cose son tutte sbandite dalla città, e non sono credute necessarie a stare con loro. Onde ei vivono una vita tranquilla e felicissima, con giustizia, con equità, con libertà, e con tutte le altre consolazioni.
Ermotimo. E che, o Licino? Non dovrien tutti desiderare di divenir cittadini di cotesta città, senza perdonare alle fatiche della via, senza stancarsi per lunghezza di tempo, se si giungerà ad esservi annoverato, e partecipare di quella cittadinanza?
Licino. Sì, o Ermotimo: tutti dovrieno attendere solo a questo, e non brigarsi di altro: non far molto conto della patria che qui ci tira; non lasciarsi svolgere da lagrime e preghiere di figliuoli o di genitori, ma esortarli a battere anch’essi la stessa via; e, se non vogliono, o non possono, lasciarli, e correr difilati a quella città felicissima; e gettar anche il mantello, se ce l’afferrano per impedirci l’andata; perchè non v’è paura che ne sarai escluso se vi giungerai nudo. Una volta un vecchio a quando a quando mi contava di questa città come è fatta, e mi esortava ad andarvi, promettendo mi condurrebbe egli stesso, e che giuntovi mi faria scrivere cittadino e nella stessa sua tribù, e così sarei felice con tutti gli altri: ma io non mi persuadevo, chè allora ero un farfallino sciocco di quindici anni; e forse già ero allora nei sobborghi e presso alle porte.
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Licino Ermotimo
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