Intorno a quella città il vecchio, se ben mi ricorda, fra tante cose inestimabili, mi diceva questa: che gli abitatori vi son tutti venuti di fuori ed ospiti, e nessuno indigeno: vi sono molti, e barbari, e servi, e brutti, e piccoli, e poveri; insomma vi è cittadino chi vuole. Per legge essi non sono descritti secondo ricchezze, o vestimenta, o grandezza, o bellezza, o schiatta, o splendore d’antenati: tutto questo non fa caso per loro: basta per divenir cittadino l’intelligenza, l’amore del bello, la fatica, la perseveranza, e non infiacchirsi ed accasciare per le difficoltà che s’incontrano per via: onde chi si mostra valente in questo, e giunge sino alla città, tosto ei divien cittadino, chiunque egli sia, ed eguale a tutti gli altri: chè lì non v’è nè maggiori nè minori, nè nobili, nè ignobili, nè servi, nè liberi, anzi neppur se ne fiata.
Ermotimo. Vedi, o Licino, che non invano nè per piccola cosa io m’affatico, desiderando di divenire anch’io cittadino di così bella e beata città?
Licino. Ed anch’io, o Ermotimo, ti dirò lo stesso, e non bramerei altro più di questo. E se la città fosse vicina, e visibile a tutti, oh sappi che io non avrei indugiato, già vi sarei, e l’abiterei da un pezzo: ma giacchè, come dite voi (cioè tu ed il poeta Esiodo), la sta lontano assai, bisogna cercare la via che mena ad essa, ed un’ottima guida. Non credi tu necessario di fare così?
Ermotimo. E come vi si potria andare altramente?
Licino. Guide che ti promettono e dicono di conoscer la via ne trovi a bizzeffe.
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