Non ci ha forse di molte coppe d’oro?
Ermotimo. Certamente.
Licino. Converrà dunque ricercar le vesti a tutti quanti, e le cose che trovi addosso a ciascuno porle in mezzo, e così fare un giudizio quale di esse può appartenere al Dio. Ma l’imbroglio maggiore è che ciascuno di coloro, che tu spoglierai, ha una cosa addosso, chi una tazza, chi una coppa, chi una corona, e chi l’ha di bronzo, chi d’oro, chi d’argento: ora quale sia la cosa sacra, non si sa. Però si deve dubitare e non dar del sacrilego a nessuno, perchè se anche tutti avessero cose simili, non però è certo chi abbia rubata la coppa del Dio: chè uno può averne una sua propria. La cagione di questa incertezza, pensomi, è una, non v’essere una scritta su la coppa perduta (pognamo che una coppa sia perduta), chè se vi fosse scritto il nome del dio o dell’oblatore, non ci affanneremmo tanto, e trovata quella con la scritta cesseremmo di ricercare e noiare gli altri. Io credo che tu, o Ermotimo, hai veduti i giuochi molte volte.
Ermotimo. Ben sai che sì: molte volte e in molti luoghi.
Licino. E ti sei mai seduto vicino a coloro che vi presiedono?
Ermotimo. Sì, teste negli Olimpici, sedei a sinistra degli arbitri, dove Evandride d’Elea mi fe’ trovare un posto fra i suoi compatriotti. Io avevo gran voglia di guardar da vicino ciò che fanno gli arbitri.
Licino. E ti ricordi il modo che tengono nel sortire ed accoppiare i lottatori e i pancraziasti?
Ermotimo. Me ne ricordo bene.
Licino. Tu dunque puoi dirlo meglio di me, che l’hai veduto da vicino.
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