Ermotimo. Anticamente, quando Ercole stabilì i giuochi, le frondi dell’alloro......
Licino. Lascia le anticaglie, o Ermotimo: e dimmi quel che hai veduto da vicino.
Ermotimo. Un’urna d’argento sacra al Dio sta in mezzo; in essa si pongono le sorti, che sono piccole come favucce, e scritte. Due di queste hanno scritta un A, due un B, due un C, e così in seguito, e sono tante quanti sono gli atleti, e sempre due sorti portano scritta una medesima lettera. Ciascuno degli atleti si avvicina, e, fatta una preghiera a Giove, pone la mano nell’urna, e ne trae fuori una sorte, e dopo lui un altro: e vicino a ciascuno un sergente gli tiene la mano chiusa, e non gli permette di leggere la lettera che ha tratta. Quando tutti hanno in mano le sorti loro fanno cerchio, e l’alitarca, o uno degli arbitri (che non più me ne ricordo), va intorno guardando i due che hanno l’A, e li accoppia per la lotta o pel pancrazio, poi unisce il B al B, e così gli altri che hanno la medesima lettera. A questo modo si fa se gli atleti sono di numero pari, come otto, quattro, dodici; se sono dispari, come cinque, sette, nove, una lettera dispari e senza corrispondente si scrive sovra una sola sorte, che si pone nell’urna con le altre: chi trae questa lettera rimane seduto ad aspettare finchè gli altri abbiano combattuto, perchè non v’è controlettera. E questo non è piccolo vantaggio per un atleta venir fresco alle prese coi già stanchi.
Licino. Fermati: di costui avevo bisogno, che noi chiamiamo l’efedro. Sieno dunque nove: ciascuno ha tratta la sua sorte, e la tiene in mano.
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