Ermotimo. O Licino, tu mi dici belle ragioni, ma (a dirtela schietta), tu m’hai sconturbato assai, infilzandomene tante, e sì sottili, senza una necessità. Vedo bene che io non sono uscito di casa col buon augurio stamane, che uscendo ho scontrato te, il quale, mentre io era già per toccare la mia speranza, mi hai gettato in mille dubbi, mostrandomi impossibile il ritrovamento della verità, se non ci si vive tanti anni.
Licino. Dovresti, o amico mio, pigliartela con tuo padre Menecrate, o con tua madre (come si chiama ella, chè non ne so il nome), o con la natura, che non ti hanno data la vita lunga di Titone, ma t’han fatto uomo, ed assegnato di vivere cento anni al più. Io non ho fatto altro che discutendo teco, trovare la conseguenza del nostro discorso.
Ermotimo. No: tu se’ sempre mordace, e non so perchè sfati la filosofia, e trafiggi i filosofanti.
Licino. O Ermotimo, quale è la verità potete meglio dirlo voi filosofi, cioè tu ed il tuo maestro. Io per me so questo, che ella non piace molto a udire, e non le si fa buon viso come alla menzogna, la quale ha più bello aspetto, e però più piace. La verità, che si sente pura di ogni mondiglia, parla schietta agli uomini, che però le vonno male. Ecco qui, tu ora ti sdegni con me, perchè io, cercando teco la verità, ti mostravo che quello che tu ed io desideriamo non è sì facile a conseguire. Questo è come se tu ti fossi innamorato d’una statua, e ne attendessi prole, credendola esser donna; ed io vedendo che è pietra o bronzo, t’ho avvertito a fine di bene che tu desideri l’impossibile: ora il cattivo son io che t’invidio di avere un figliuolo, perchè ti voglio togliere di quest’inganno e di queste strane speranze.
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Licino Menecrate Titone Ermotimo
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