Ermotimo. Tu mi abbindoli, o Licino, e mi metti alle strette non per male che io t’abbia fatto, ma per un po’ d’invidia che io m’avanzava nella scienza, e tu di cotesta età ti rimanevi indietro.
Licino. Sai dunque che devi fare? Io sono un matto: tu non badarmi, lasciami matteggiare. Tu segui la tua via, e, coi precetti avuti, percorrila tutta.
Ermotimo. Ma tu sei un soverchiatore, e non vuoi che io ne scelga una se non ho tentate tutte quante le altre.
Licino. Oh, sappi che io non ti dirò più niente. Chiamandomi soverchiatore, tu incolpi un incolpabile, come dice il poeta, uno che già veniva con te, finchè un’altra ragione non mi ha soverchiato ed allontanato da te. E soverchie cose ti vorria dire questa ragione: ma tu la sfuggi, e poi incolpi me.
Ermotimo. Quali cose? Mi maraviglio se s’è lasciato nulla da dire.
Licino. Non basta, essa dice, conoscere e percorrere tutte le sètte per iscegliere la migliore, ma bisogna un’altra cosa grandissima.
Ermotimo. E qual è?
Licino. Bisogna esser provveduto di certa critica, di metodo, di mente acuta, di giudizio sodo ed imparziale per giudicare di cose sì gravi: se no, tutte le conoscenze acquistate sono indarno. E per questo, dice la ragione, ci vuol tempo non breve; e quando ogni cosa è pronto, e si è in su lo scegliere, allora andare adagio, considerare, e tornare a considerare; nè aver rispetto all’età, all’autorità, o alla fama dei filosofi; ma imitare gli areopagiti, che giudicano di notte e al buio, per riguardare alle parole non al parlatore: ed allora potrai, dopo sicura scelta, filosofare.
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Licino
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