Ermotimo. Sì, dopo morte. Così a nessun uomo basterebbe tanto la vita da entrare in tutte le scuole, e conoscerne ciascuna a fondo, e conosciutele, giudicarne, e giudicatele scegliere, e sceltane una, filosofare. Chè solamente così tu dici che si trova il vero, altrimenti no.
Licino. M’incresce di dirti, o Ermotimo, che neppur questo è bastante; e che mi pare che noi inganniamo noi stessi, credendo di aver trovato il sodo, e non abbiamo trovato nulla: come talora i pescatori che gettate le reti e sentendole pesanti, si affaticano a tirarle, sperando vedervi guizzare moltissimi pesci; ma tira, tira, e vedono comparire o una pietra o un tegolo coperto d’arena. Bada che non abbiam tirato anche noi qualche cosa simile.
Ermotimo. Non intendo che vuoi dire con coteste reti: certo mi ci vuoi impigliare.
Licino. Dunque tenterò distrigartene; che con l’aiuto d’un Dio tu sai nuotare quanto altri. Io credo che, quando pure noi anderemo da tutti i filosofi, e faremo puntualmente tutte le ricerche che ho dette, noi non sapremo mai di certo se alcun d’essi ha quella cosa che noi cerchiamo, o se tutti egualmente l’ignorano.
Ermotimo. Che dici ora? che nessun d’essi l’ha?
Licino. Dico che è incerto. O pure a te pare impossibile che tutti dicano il falso, e che il vero sia tutt’altra cosa da quello che essi dicono?
Ermotimo. Come può esser questo?
Licino. Ecco come. Pognamo che la verità sia il numero venti; e che uno prendendo, per esempio, venti fave e tenendole chiuse in una mano, dimandi a dieci persone quante fave egli tiene in mano: quelli dicono a caso chi sette, chi cinque, chi trenta, chi dieci, chi quindici, e chi tutt’altro numero.
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Ermotimo Dio
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