Onde in una battaglia se si sono perdute navi, non l’ha affondate egli; se si è fuggito, non ha perseguitato egli: fuorchè non si dica, che si doveva augurare il bene, ed ei non l’ha fatto. Eppure se col tacere quelle sventure, o col dire il contrario, si fosse potuto raddirizzare i fatti, Tucidide con un sol tratto di penna avria rase le mura dell’Epipoli, affondate le triremi di Ermocrate, spacciato quel maladetto Gilippo che murava e circonvallava tutte le vie: ed infine gettati tutti i Siracusani nelle latomie, e menati gli Ateniesi intorno la Sicilia e l’Italia con le prime speranze d’Alcibiade. Ma il fatto è fatto, e neppure le Parche potrebbero mutarlo.
Uffizio dello scrittore è uno, dire i fatti come sono avvenuti. E questo non può adempiere chi teme Artaserse, del quale è medico, o chi spera di avere un robone di porpora, una collana d’oro, o un cavallo Niseo in premio delle lodi che ha scritte. Non farà così Senofonte, imparziale storico, nè Tucidide; ma se avrà odii privati, li porrà da banda per il pubblico bene, e farà più conto della verità che delle sue nimicizie; e se avrà colpevoli amici non li risparmierà. Chi scrive storie alla sola verità dee riguardare, a questa sola dea sacrificare, e di tutt’altro dimenticarsi; una sola misura, una sola regola avere, pensare non a chi ti ascolta ora, ma ai posteri che leggeranno i tuoi scritti; se carezzi i presenti, tosto ti metti indosso la veste degli adulatori, la quale la storia ha ributtato, come la ginnastica il belletto.
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