Sbarcati non vi trovammo uomini affatto, ma lucerne che andavano su e giù, e stavano in piazza e sul porto; alcune piccole, o per così dire povere, altre grandi, e magnatizie, molto chiare e splendenti. Ciascuna s’era fatta la sua casa, cioè il suo lucerniere, avevano nomi, come gli uomini, e udimmo che parlavano: non ci fecero alcun male, anzi ci offerirono ospitalità; ma per paura nessuno di noi s’attentò di mangiare o di dormirvi. Il palazzo della Signoria è nel mezzo della città, e quivi il signore siede tutta notte, e chiama ciascuna a nome: quale non ubbidisce alla chiamata è condannata a morte come disertrice: la morte è lo spegnerla. Noi fummo presenti, vedemmo ciò che si faceva, e udimmo alcune lucerne che facevano delle brave difese, ed allegavano le ragioni perchè erano ritardate. Quivi riconobbi anche la lucerna di casa mia, e le dimandai novelle de’ miei, ed essa mi contò ogni cosa. Per quella notte rimanemmo lì: il giorno appresso salpammo, e navigando c’avvicinammo alle nuvole, dove vedemmo con grande meraviglia la città di Nubicuculia, ma non vi scendemmo, chè il vento nol permise: pure sapemmo che ivi era la reina Cornacchia, figliola di re Merlo. Allora io mi ricordai del poeta Aristofane, savio e verace scrittore, al quale certi saccentuzzi non vogliono prestar fede. Dopo tre giorni vedemmo chiaramente l’Oceano, la nostra terra no, ma quelle che stanno nell’aere, le quali già ci apparivano color di fuoco e lucentissime. Il quarto giorno verso il mezzodì, cedendo a poco a poco e posando il vento, discendemmo sul mare.
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