– Bene io dissi, li combatteremo; essi sono inermi, noi armati, quando li avremo vinti non ci staremo più con paura. – E così stabilito, tornammo alla nave per prepararci. Cagione della guerra doveva esser il non pagare il tributo, che appunto stava per iscadere. Infatti essi mandarono a chiederlo, e il vecchio superbamente rispondendo scacciò i messi: onde i Piedisogliole e gli Sgranchiati accesi d’ira contro Scintaro (che così si chiamava) vennero con gran fracasso ad assalirlo. Noi, che avevam preveduto questo assalto, armati li aspettammo a piè fermo, avendo disposti in agguato venticinque uomini, che come avesser veduto trapassare il nemico, dovessero levarglisi alle spalle: e così fecero. Usciti dalle insidie li tagliano alle spalle; e noi che eravam altri venticinque, perchè Scintaro ed il figliuolo combattevan con noi, li affrontiamo, con gran coraggio e bravura combattendo in mezzo a gravi pericoli. Infine li mettemmo in fuga, e li seguitammo sino alle loro tane. Perirono de’ nemici centosettanta, de’ nostri il solo pilota, trapassato nel tergo da una lisca di triglia. Quel giorno e la notte accampammo dove s’era combattuto, e vi rizzammo un trofeo piantando un’intera spina di un delfino morto. Il giorno appresso, saputo il fatto, comparvero anche gli altri: nell’ala destra erano gl’Insalumati guidati da capitan Pelamida, nella sinistra i Capitonni, nel centro i Granchimani. I Tritonobecchi se ne stettero cheti, e non tennero per nessuno. Noi andammo ad assalirli presso al tempio di Nettuno e ci mescolammo con altissime grida, sì che la balena tutta ne rintronava, come una spelonca.
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