Rivolta in fuga quella nuda accozzaglia, gl’inseguimmo sino alla selva, e c’impadronimmo di tutto il rimanente del paese. Indi a poco mandarono trombetti a chiedere di seppellire i morti, e di fare amicizia con esso noi; ma noi non volemmo patti, e l’altro giorno fummo lor sopra, e li sterminammo tutti quanti, tranne i Tritonobecchi i quali veduto la mala parata, quatti quatti per le branchie della balena se la svignarono nel mare. E così spazzato il paese, e nettatolo da ogni nemico, l’abitavamo senza paura, esercitandoci nella ginnastica, nella caccia, a coltivar la vigna, a cogliere i frutti dagli alberi: insomma stavamo come prigionieri che vivono in un grande e sicuro carcere senza catena e comodamente. Un anno ed otto mesi passammo in questa guisa.
Nel nono mese, al quinto giorno, verso la seconda apertura della bocca (una volta l’ora la balena apriva la bocca, e così noi contavamo il tempo), verso dunque la seconda apertura, a un tratto udissi un gran gridare e un fracasso come di voga arrancata e di rematori. Sbigottiti ci arrampicammo alla bocca della balena, e stando in mezzo ai denti, vedemmo il più maraviglioso spettacolo di quanti mai io n’abbia veduti, omaccioni di mezzo stadio, che navigavano su grandi isole, come sovra triremi. So che racconto cose che paiono incredibili, ma pure le dirò. Le isole erano ben lunghe, non molto alte, ciascuna un cento stadi di circuito; sovr’esse navigavano un centoventi di quegli omaccioni, dei quali alcuni seduti in ordine ai due lati dell’isola vogavano tenendo in mano grandi cipressi con tutti i rami e le fronde, come fossero remi, dietro a poppa sovra un alto colle stava il piloto con in mano il timone lungo uno stadio, sulla prora una quarantina di armati combattevano, simiglianti ad uomini, tranne la chioma che era fuoco ed ardeva, onde non avevano bisogno di elmo.
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Tritonobecchi
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