Trenta giorni ed altrettante notti rimanemmo tra essi dormendo e scialando: dipoi all’improvviso scoppio d’un gran tuono svegliatici, e levatici in piè facemmo provvisioni, e partimmo.
Il terzo dì giunti all’isola Ogigia, dismontammo: io primamente sciolsi i legami della lettera, e la lessi: diceva così: «Ulisse a Calipso salute. Devi sapere che io quando mi partii da te su la zattera che io m’avevo costruita, feci naufragio, ed a pena fui salvato da Leucotoe nel paese dei Feaci: dai quali rimandato a casa mia, vi trovai molti cicisbei di mia moglie, che sguazzavano su la roba mia. Io li uccisi tutti quanti; ed infine Telegono, che mi nacque da Circe, uccise me. Ed ora sono nell’isola dei Beati, pentito assai di aver lasciata la bella vita che menava con te, e l’immortalità che tu mi offerivi. Se dunque mi verrà fatto, fuggirommene e sarò da te.» Questo era il senso della lettera: diceva ancora due parole di raccomandazione per noi. Essendomi dilungato un po’ dal mare trovai la grotta della dea tale quale la descrive Omero, e lei che filava lana. Come ella prese la lettera e la lesse, pianse lungamente, poi c’invitò alla mensa ospitale, ci trattò lautamente, e ci dimandò di Ulisse e di Penelope, come ella era di volto, e se era casta, come Ulisse gliela vantava: e noi le rispondemmo cose che ci pareva le dovessero piacere. Dipoi ce ne tornammo alla nave, e lì vicino sul lido ci addormentammo: la mattina, messosi un buon vento, salpammo.
Per due giorni avemmo burrasca, il terzo scontrammo i Zucchepirati, uomini feroci, che dalle isole vicine assaltano e svaligiano chi naviga per quei mari.
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