La legammo con un gran canapo, e montati su gli alberi, a gran fatica la tirammo su: e adagiatala sovra i rami, spiegata la vela, andavam come sul mare, pinti dal vento. Allora mi ricordai del poeta Antimaco, che in una parte dice:
Venian per mar selvoso navigando.
Valicata la selva giungemmo all’acqua, e calata la nave allo stesso modo, navigammo su l’acqua limpida e trasparente: finchè pervenimmo sopra una gran voragine che s’apriva nell’acqua, come quelle che vediamo per tremuoto su la terra. La nave, ammainata subito la vela, a pena si fermò, e mancò per poco che la non fosse travolta giù. Sporgemmo il capo, e vedemmo una profondità di quasi mille stadii, terribile molto e maravigliosa: l’acqua rimaneva come spaccata. Guardando intorno vedemmo verso destra non molto lungi un ponte fatto di acqua, la quale univa i due lembi dello spacco, e dall’un mare correva nell’altro. Facendo forza di remi piegammo a quella parte, e con molta agonia tragittammo il ponte, e non ce lo credevamo.
Quindi ci accolse un mare tranquillo e un’isola non grande, accessibile, abitata da uomini salvatichi, detti Bucefali, con teste di bue e corna, come dipingesi il Minotauro. Discesi, c’inoltrammo per fare acqua, ed anche un po’ di vettovaglia, se era possibile, chè non ne avevamo più. L’acqua trovammo lì vicino; ma altro non appariva niente, se non che udivamo certi muggiti poco lontani. Credendo che fosse una mandra di buoi, prendiam quella via, e troviamo uomini, i quali al vederci ci danno addosso, e afferrano tre compagni: noi altri fuggiamo alla dirotta verso il mare.
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