E tale io credo sia quello che io ho fatto a costui, il quale io ho salvato; il quale mi è debitore della vita, al quale ho dato l’essere, ed il senno, e l’intendimento, e massime quando tutti gli altri non ci speravano più, e si confessavano vinti dal male. Ma ciò che fa più grande, cred’io, il mio benefizio, è che allora io non era figliuolo, non avevo stretto obbligo di curarlo, ma ero rimasto libero, stranio, sciolto dai legami di natura, e pure non guardai a nulla, ma volenteroso, senza chiamata, da me venni, aiutai, assistei, medicai, risuscitai, mi salvai il padre mio, e così della diredazione mi giustificai, con la benevolenza calmai lo sdegno, con la pietà ruppi la legge, con un gran benefatto comperai il ritorno in famiglia, in così difficile frangente mostrai fede a mio padre, per mezzo dell’arte entrai in casa, e nel pericolo mi mostrai legittimo figliuolo. Quai pene, quai fatiche credete voi che io ho sostenuto, standogli vicino, servendolo, cogliendo il tempo, ora cedendo al male che era nel suo incremento, ora opponendogli l’arte quando si rimetteva un poco? La cosa più di tutte pericolosa in medicina è medicar queste persone, avvicinarsi a tali ammalati, che spesso anche nei loro prossimani sfogano la rabbia quando il male infuria. Eppure di niente m’impazientii, nè mi scuorai, ma affrontando e con ogni modo combattendo la malattia, infine la vinsi col farmaco. E qui alcuno non mi stia a dire: Oh, che gran fatica è dare un farmaco? Imperocchè molte cose prima di questa si deve fare, e preparare la via al beveraggio, e disporre il corpo alla cura, e badare alla complessione ed alle abitudini nel purgarlo, nell’indeb
| |
|