Ma per cotai mimi non si deve, cred’io, biasimare la mimica, ed abborrire ciò che ella fa; ma tener essi per ignoranti, quali sono, e lodare quelli che fanno bene e convenevolmente l’arte loro. Insomma il mimo dev’essere per ogni parte perfetto; tutto in lui sia garbo, leggiadria, simmetria, convenienza; senza macchia, senza difetto, compitissimo, temperato e misto di ottime qualità, d’acuto ingegno, di profonda erudizione, e specialmente di sentimento umano. Chè allora gli spettatori gli daranno lode piena, quando riconosceranno sè stessi in lui, quando ciascuno vedrà nel mimo, come in uno specchio, ciò che egli suole sentire e fare. Allora gli uomini non si possono contenere pel diletto, e rompono in grandi applausi, vedendo ciascuno in lui un’immagine dell’anima sua, e riconoscendo sè stessi. Per questo spettacolo acquistano veramente quel conosci te stesso dell’oracolo di Delfo; escono del teatro ammoniti di che è da seguire e che da fuggire, ed ammaestrati di ciò che prima ignoravano.
Ma come nell’arte del dire, così nel ballo c’è quella che comunemente chiamasi affettazione, quando alcuni trapassano la misura dell’imitazione, si sforzano oltre il conveniente; se debbono mostrare una cosa grande te la dimostrano grandissima, se delicata la fanno effeminatissima, se virile la portano sino al salvatico ed al feroce. Così una volta mi ricorda di aver veduto fare un mimo, che prima era bravo, giudizioso, e veramente degno di ammirazione, poi, non so come, per voler troppo imitare, era caduto nello strano.
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Delfo
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