Rappresentando una volta Aiace, che vinto nella gara impazzisce, trasmodò tanto che parve a taluno, non già di rappresentare una pazzia, ma d’impazzire egli proprio. Chè ad uno di quelli che battono le nacchere col piede ei lacerò la veste; ad uno de’ flautisti che l’accompagnavano, strappò di mano il flauto; e spaccò il capo ad Ulisse, che gli stava vicino tutto gonfio e pettoruto per la vittoria: e se non fosse stato il cappello che gli parò alquanto la botta, il povero Ulisse sarebbe morto sotto i colpi d’un mimo uscito de’ gangheri. Intanto tutto il teatro era impazzito con Aiace, battevano i piedi, gridavano, si stracciavano le vesti; non pure il popolazzo, che è ignorante, e non intende di convenienza, nè distingue il meglio dal peggio, credeva che quella fosse una imitazione perfettissima della passione; ma la gente colta che capivano la bruttezza della cosa, e ne sentivan vergogna, eppure non la disapprovavano tacendo, ma coi loro applausi anch’essi nascondevano la stoltezza dello spettacolo, benchè vedessero benissimo che la non era la pazzia d’Aiace ma del mimo. Il quale non contento di tutto questo, ne fece una più grossa: scese in mezzo dov’è il senato, e si assise tra due consolari, i quali ebbero una gran paura, che ei pigliando qualcuno di loro per montone non lo frustasse ben bene: al che alcuni maravigliavano, altri ridevano, altri temevano che la imitazione non andasse a finire in una spiacevole verità. E dicesi che egli poi tornato in sè, si pentì ed accorò tanto di ciò che aveva fatto, che ne ammalò, avendo riconosciuto che era stato pazzo davvero.
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