Ehi, ragazzo, mescimi più d’acqua, se no comincio a balenare, e debbo chiamar mastro impicca per darti la castigatoia: Voi sapete che ho i dolori, e ho il capo incapperucciato. Dopo il bere faremo chiccheri chiacchere, chente è la nostra costuma; chè vino e chiacchiera son fratello e sirocchia.
«L’approvo, diss’io, chè da noi si coglie il più bel fior dell’atticismo.
«E Callide: Eh, dici bene: in buona brigata la lingua s’arrota.
«Ed Eudemo: Io per me, giacchè fa freddo, vorrei meglio spesseggiar col più pretto. Son morto freddo, e con più piacere, se fossi accaldato, udirei questi mani-savi, il flautista cioè e il chitarrista.
«Ed io: Che dici, o Eudemo? C’imponi mutolezza, come se fossimo sboccati e scilinguati? Ma per me già la lingua mi balla in bocca, e io già pigliava l’abrivo per parlamentarvi in istile antico, e coprirvi tutti con un nevischio di parole. Ma tu mi hai fatto come chi soprattenesse uno stambecco andante di golfo lanciato, con le vele accoppate, veloce, e sfiorant’-onde, gettando tenesmi a due punte, ami ferrati, e inceppanavi, e così accapigliandolo ne fermasse la foga del corso, non volendo farlo andar sparvierato.
«Ed egli: Dunque, se t’aggrada, naviga, nuota, corri sul fiotto: chè io di terra, bevendo, intanto come il Giove d’Omero sopra una nuda vetta o dalla rocca del cielo, mi starò a vedere come tu se’ straportato, e come la nave vadia pinta a calci in poppa dal vento.»
Licino. Basta, o Lessifane, basta del convito e della lettura. Io già sono ubbriaco, e mi sento muovere lo stomaco, e se tosto non vomito tutta questa roba che m’hai recitata, oh! io credo che uscirò pazzo, intronato come sono dalle parole che m’hai scaricate addosso.
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