Ma per la vergognosa Minerva, e per Ercole gran vincifiere, noi non lo curiamo una frulla nè una ghiarabaldana. Malannaggia che mi sono pure abbattuto in lui: mi sento la muffa al naso udendolo farmi il satrapo addosso. Ma già vommene dal mio sozio Clinia, perchè so che da tempo ha la moglie che è impura, ed ammalata perchè non iscorre; onde ei più non la monta, ma è smontato e scavalcato.
Sopoli. Che malattia, o Licino, ha Lessifane?
Licino. Questa appunto, o Sopoli: non odi come parla? Lascia noi altri che viviamo con lui, e parla come si parlava mill’anni fa, storpiando la lingua, componendo quelle stranezze, e ponendoci una gran cura, come se fosse un gran che a dare un altro stampo alle parole, che son monete di valore stabilito e corrente.
Sopoli. Davvero che cotesta è una malattia grave, o Licino. Bisogna con ogni mezzo aiutar questo poveruomo. Or vedi fortuna! avevo preparato questa pozione per un pazzo malinconico, e andavo a portargliela, acciocchè bevendola vomitasse. Via, bevine prima tu, o Lessifane: così tornerai sano e mondo, e purgato di cotesto fecciume di parole. Ubbidisci, bevi, e starai meglio.
Lessifane. Io non so che mi volete operare, o Sopoli, e tu o Licino, porgendomi bere questa pozione. Temo che il beveraggio non mi anneghi il linguaggio.
Licino. Bevi, fa presto, acciocchè ci parli e pensi da uomo.
Lessifane. Ecco, ubbidisco, e bevo. Puh! che è questo! Che borboglio di visceri! mi pare d’aver bevuto un demone ventriloquo.
Sopoli. Comincia a vomitare. Bravo!
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