Prima il gnaffe, e poi è uscito l’avvegnacchè: dopo di questi il caro tu, il maisì, il chente, il conciossiacchè, e quel continuo, ed io, e tu, ed egli. Sfórzati pure, e cácciati le dita in gola. Non ancora hai vomitato l’arco dell’osso, il sono di credere, l’arroge, il rimpinzare(72). Molta altra roba è andata giù, e n’hai pieno il ventre: ma è meglio se n’esca per la via di basso. E la ghiarabaldana farà certo un gran frullo a scapparsene di sotto. Ma già costui è purgato; se non che gli è rimasto qualcosa nel basso ventre. Ora lo do in mano a te, o Licino; rimettigli tu un po’ di cervello, e gl’insegna come si ha a parlare.
Licino. Così faremo, o Sopoli, giacchè tu n’hai spianata la via. Non mi rimane altro che a darti un consiglio, o Lessifane. Se vuoi davvero essere un lodato parlatore ed applaudito dal popolo, fuggi ed abbomina tutte coteste parole viete e maniere strane. In prima comincia a leggere i migliori poeti con la guida di un maestro; dipoi gli oratori, e quando ti sarai nudrito nella loro lingua, a tempo opportuno passa a Tucidide e Platone, ma dopo che avrai bene studiato nella piacevole commedia e nella grave tragedia. Se da questi sfiorerai tutto il meglio, sarai qualcosa nell’eloquenza, chè al presente, senza che tu lo sappi, tu sei simile ad uno di quei fantocci che i fantocciai vendono in piazza; di fuori sei dipinto di rosso e d’azzurro, di sotto sei creta fragile. Se farai così, se ti rassegnerai ad essere ignorante per poco tempo, e non ti vergognerai di disimparar l’imparato male, ti presenterai con altro animo al popolo, non sarai deriso come sei ora, nè anderai in canzone sulle bocche della gente, che ti chiamano il greco, e l’attico, mentre non meriti di essere annoverato nemmeno tra i barbari più chiari.
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