Io per me non lodo neppure i poeti che scrivono poesie con parole viete che han bisogno di chiose. Gli scritti tuoi, per paragonar la prosa alla poesia, sono come l’Ara di Dosiade, o la Alessandra di Licrofone, e se v’è altra scrittura più sciagurata per lingua(73). Se dunque seguirai il mio consiglio, e disimparerai coteste ghiottonerie, buon per te, e te ne troverai contento; ma se vi sdrucciolerai un’altra volta, io per me ho fatto il mio dovere ad avvertirti, tu dovrai incolpare te stesso quando ti accorgerai d’essere mal capitato.
XXXIV.
L’EUNUCO.
Panfilo. Donde, o Licino, e perchè ne vieni ridendo? Tu se’ sempre allegro, ma ora più del solito, mi pare; chè non puoi tener le risa.
Licino. Vengo dal foro, o Panfilo: farò ridere anche te, se saprai a che sorta di piato ho assistito, di filosofi accapigliati tra loro.
Panfilo. Oh, questa è veramente ridicola, filosofi litigare tra loro: dovrebbero, ancorchè fosse una cosa grande, comporre in pace tra loro stessi le contese.
Licino. Che pace, caro mio! venuti alle prese si hanno scaricate le carrette di villanie l’un contro l’altro, gridando e tempestando.
Panfilo. Forse disputavano, o Licino, di loro dottrine, come sogliono fare, essendo di diverse sette?
Licino. Niente affatto: tutt’altro. Erano della stessa setta, e delle stesse dottrine. Eppure ci è nata una lite; e i giudici che dovevano darne sentenza erano il fiore dei cittadini, i più vecchi e i più savi; innanzi ai quali uno si vergogneria di mettere una parola in fallo, non che di scendere a quelle vergogne.
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