Il famoso Erode piangeva il suo Polluce morto nel fiore degli anni, e per lui faceva tenere un cocchio aggiogato, e i cavalli pronti, come se quegli dovesse montarvi, ed una mensa imbandita. Va Demonatte e gli dice: Ti porto una lettera di Polluce. Quei si rallegra, e credendol venuto con gli altri secondo l’uso a condolersi con lui, gli dice: Che vuol dunque Polluce? E Demonatte risponde: Si duole di te, che non ancora sei andato a trovarlo.
Lo stesso Erode piangeva la morte d’un suo figliuolo, e s’era chiuso in casa al buio. Demonatte andò da lui, e dissegli che per arte magica potrebbe fargli venire innanzi l’ombra del figliuolo, purchè ei gli nominasse tre uomini che non hanno mai pianto nessuno. Quegli stava peritoso, e non sapeva che rispondere, e credo non avria potuto nominarne alcuno. Allora egli, O sciocco, disse, a credere che tu solo soffri mali insopportabili: e pur vedi che nessuno è senza dolori.
Soleva ridersi di coloro che nel parlare usano parole troppo viete e forestiere. Avendo dimandato un tale di una cosa, e questi avendogli risposto con certo vecchiume di parole attiche: O amico, diss’egli, io t’ho dimandato oggi, e tu mi rispondi come si usava al tempo di Agamennone.
Un amico un dì gli diceva: Andiamo, o Demonatte, nel tempio a pregare Esculapio pel figliuol mio. Ed ei: Tu fai ben sordo Esculapio se non può udire anche da qui la nostra preghiera.
Vedendo un dì due filosofi scioccamente contendere in una questione, uno far dimande strane, l’altro rispondere a sproposito, disse: Non vi pare, o amici, che di questi due uno munge un caprone, e l’altro gli tiene un crivello sotto?
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