L’epitaffio diceva:
D’Admeto il frale è in terra, l’alma in cielo:
Risposegli ridendo: È sì bello, o Admeto, che io vorrei fosse già scritto.
Vedendogli uno le gambe con le vacche, come sogliono averle i vecchi, gli domandò: Che è codesto, o Demonatte? Ed ei sorridendo: Sono morsi di Caronte.
Avvenutosi in uno spartano che batteva un suo servo, dissegli: Non trattare il servo come tuo eguale.
Una certa Danae aveva un piato con un suo fratello; ei dissele: Va’ in giudizio, chè tu non sei Danae la figliuola d’Acrisio, cioè dell’ingiudicabile.
Era nemico sfidato d quelli che cianciano di filosofia per vanità non per amor della verità. Vedendo un cinico che aveva il mantello, la bisaccia, e, invece del bastone, un pestello, e che schiamazzava, e si diceva discepolo di Antistene, di Crate e di Diogene: Tu menti, disse: tu sei discepolo d’Iperide(78).
Vedendo molti atleti combattere sconvenevolmente, e contro la legge del giuoco invece di fare alle pugna, mordersi tra loro, disse: Non senza ragione gli atleti dei nostri dì son chiamati leoni dai loro spasimati.
Assai piacevole e pungente fu il motto che ei gittò ad un proconsole, il quale usava di farsi dipelare le gambe e tutto il corpo. Un cinico in piazza montato su di un sasso sparlava di questo fatto, e diceva un vitupero più brutto; onde sdegnato il proconsole fece prendere il cinico, e stava per fargli dare una battitura, o mandarlo in esilio. Trovatosi a caso Demonatte presso di lui, pregavalo che dovesse perdonare a quell’ardito parlare che è proprio dei cinici.
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