Un’astuta poi, che sapeva più di qualunque cortigiana l’arte di allettare un innamorato, e, se lo trovava restio, d’incapestrarlo, di spronarlo, di accenderlo ora con finti sdegni, ora con carezze, ora con fare la contegnosa, ora col mostrarsi spasimata d’un altro: era maestra di tutti gli scaltrimenti, aveva lacciuoli assai per prendere gl’innamorati. Alle mani di costei venne il povero Dinia, carrucolatovi da’ suoi adulatori, indettati con lei. E costei che aveva fatto rompere il collo a tanti giovani, s’era sparsa in mille amori, e aveva rovinate case ricchissime, questa malvagia femmina spertissima di tutte le malizie, come ebbe a mano questo giovane semplice e soro, non se lo lasciò più fuggire, gli pose gli unghioni addosso, glieli ficcò bene addentro; ma nel meglio che lo teneva per suo, ella morì su la preda, e precipitò il povero Dinia in un mare di guai. Cominciò dunque a spiccargli quelle letterine, e mandargli continuamente a dire per una sua fante, che ella piangeva, che ella non aveva più pace, e che infine la disgraziata si ucciderebbe con le mani sue per non patire questa passione: finchè il povero merlotto si persuase d’essere un bel giovane, ed il vago di tutte le donne di Efeso. Si fè molto pregare, infine s’arrese: e da quel punto, facilmente, com’era naturale, egli fu preso perdutamente d’una donna bella, che sapeva dolcemente parlare, usare a tempo le lagrimette, alle parole mescere i sospiri, trattenerlo quand’egli usciva, andargli incontro quando entrava, abbigliarsi per più piacergli, e talvolta cantare e sonare la cetera.
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Dinia Dinia Efeso
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