(114) Chè il buttero mi lasciava in casa a sua moglie Megalopola, ed ella mi aggiogava alla mola per macinarle grano ed orzo. Ei non era un gran male per un asino riconoscente macinar pe’ suoi padroni; ma la buona donna anche agli altri di quei poderi, ed erano molti, affittava il mio povero collo, pigliandosi la mulenda in farina: anzi l’orzo assegnato a me per profenda ella tostavalo, lo faceva macinare anche a me, ne faceva belle focacce, e se le mangiava; e a me crusca. Se talvolta il mandriano mi menava con le cavalle a pascere, i maschi a calci ed a morsi mi uccidevano; chè sospettando sempre che io volessi montare le loro cavalle, mi perseguitavano, sparavano calci a coppia; onde io non potevo sopportare quella gelosia cavallina. Sicchè in poco tempo divenni macilento e brutto; in casa alla mola non godevo, in campagna al pascolo non pasceva per la guerra che avevo dai cavalli.
Spesso ancora mi mandavano alla montagna, e portavo legne addosso: e questo fu il maggiore de’ miei mali. Primamente dovevo salire un alto monte per una via ripidissima, ed io ero scalzo, e la montagna aspra di sassi: poi mandavano con me un asinaio che era un ragazzaccio scellerato, il quale ogni volta mi assassinava. Mi batteva ancora chè io corressi, e non con una mazza schietta ma piena di nocchi e di punte, e batteva sempre ad una parte della coscia, sicchè quivi mi si aprì una piaga; ed ei dava sempre su la ferita. Mi poneva addosso un carico che non l’avria portato un elefante: e di lassù la discesa era precipitosa, ed egli anche allora mi batteva.
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Megalopola
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