Poi egli zappava, e piantava, ed inaffiava le piante; ed io me ne stavo ozioso. Ma io ci stavo di mala voglia; perchè primamente era già inverno, ed egli non aveva da comperarsi un pagliericcio per sè, non che per me; poi ero sferrato, e andavo ora per fangacci, ora sul ghiaccio duro ed acuto; e tutti e due non mangiavamo altro che lattughe amare e dure. Una volta essendo usciti dell’orto, scontrammo un omaccione in veste militare, che parlò in lingua italiana, e dimandò all’ortolano: Dove meni quest’asino? Quei che, pensomi, non intendeva la lingua, non gli rispose. Il soldato l’ebbe come a disprezzo, e con una frusta batte l’ortolano: il quale l’abbranca, e datogli uno sgambetto, lo atterra, se lo caccia sotto, e lo ammacca con pugni, con calci, coi sassi della strada. Quegli da prima resiste, e minaccia che se si leva lo ucciderà con la spada. L’ortolano, udito da lui stesso ciò che doveva fare, strappa la spada e gitta lontano, e continua a tartassarlo. Ei vedendosi a mal partito finge il morto: l’altro impaurito di ciò, lo lascia quivi disteso per morto; e pigliata la spada, salta su di me; e a corsa verso la città. Come vi giungemmo, egli affidò il suo orto ad un compagno per coltivarlo, e temendo pel fatto della via, si nasconde insieme con me in casa d’un suo confidente nella città. L’altro giorno, tenuto consiglio, fanno così: nascondono il padrone in un armadio, e me pigliano pe’ piedi e mi portano sopra per una scala in una stanzuccia su la soffitta, e lassù mi rinchiudono.
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