Giove. Apollo aveva un certo sdegno contro di Creso, il quale lo aveva offeso, facendo bollire insieme carni di montone e di testuggine.
Il Cinico. Non doveva sdegnarsi egli che è un Dio. Ma io credo piuttosto che il Fato aveva fatato che il Lidio avrebbe dovuto essere ingannato da un oracolo, e che non avria saputo interpetrarlo. E però anche la profezia è opera sua, e non vostra.
Giove. Tu non lasci niente a noi. E che Dei siamo noi se non provvediamo alle cose del mondo, se non meritiamo sacrifizii, se siamo asce e succhielli? Tu vuoi la baia del fatto mio, perch’io con questa folgore che ho in mano ti lascio dire tante insolenze contro di noi.
Il Cinico. Scagliala, o Giove, se per me è fatale morir di folgore: io non ne vorrò male a te, ma a Cloto che per te m’avrà ferito: e non me la piglierei nemmeno con la folgore che mi percuoterebbe. Ma io dimanderò un’altra cosa a te ed al Fato, pel quale ti prego di rispondermi; la tua minaccia me n’ha fatto ricordare. Perchè mai voi lasciate stare i sacrileghi, i ladri, e tanti scellerati, spergiuri, violenti, e spesso fulminate una quercia, una pietra, l’albero d’una nave che non ha fatto male a nessuno, e talvolta un pover uomo dabbene che si trova in viaggio? Non mi rispondi, o Giove? forse neppur questo mi lice sapere?
Giove. No, o Cinico. Ma tu ti pigli troppi impacci, e non so donde sei venuto a sfoderarmi tante dimande.
Il Cinico. Bene, neppur questo io dimanderó da voi, da te, dalla Provvidenza e dal Fato, perchè mai il buon Focione morì in tanta povertà e tanto stremo del necessario; ed Aristide prima di lui: e perchè furon tanto ricchi Callia ed Alcibiade giovanastri scapigliati, e l’insolente Midia, e quel bardassa di Carope di Egina che fece morir di fame la madre?
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