Intanto, o Mercurio, Giunone, e Minerva, che faremo? Vedete anche voi di trovarci un partito.
Mercurio. Io per me dico che se ne debba consultare in comune, e convocar parlamento.
Giunone. Io sono dello stesso avviso.
Minerva. Ed io avviso il contrario, o padre: non mettere sossopra il cielo, non mostrare che se’ turbato per questa faccenda: puoi sbrigarla da te solo, fare che Timocle riesca vincitore nella disputa, e Damide se ne vada scornacchiato.
Mercurio. Ma la non è faccenda che può rimaner nascosta, o Giove, chè la contesa dei filosofi sarà pubblica: e tu parrai tiranno, se pigli sopra di te un affare sì grave, che tocca tutti.
Giove. Dunque fa’ la grida, e ci vengano tutti; chè dici bene.
Mercurio. Ecco. Venite a parlamento, o Dei: non tardate, radunatevi tutti, venite, si ha a parlare di cose grandi.
Giove. Che razza di grida mi fai, o Mercurio, così meschina e pedestre, convocandoli per cosa sì grave?
Mercurio. E come la vuoi, o Giove?
Giove. Come la voglio? Dev’essere in istile magnifico, in versi, una grida poetica, acciocchè si raduni più gente.
Mercurio. Sì: ma questa, o Giove, saria cosa da cantatori e da rapsodi: io non sono affatto poeta, e guasterò la grida, accozzandola di versi troppo lunghi e troppo corti, e ci avrò la baia. Io vedo che anche ad Apollo danno la baia per alcuni oracoli, benchè l’oracolo nasconda molte magagne con la sua oscurità, e chi l’ode non va cercando la misura dei versi.
Giove. Almeno, o Mercurio, méscolavi parole d’Omero, di quella sua grida quand’egli ci convocava.
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