Trovo quello scellerato epicureo di Damide, e quel dabben uomo di Timocle lo stoico accapigliati in una disputa. Timocle era tutto sudato e rauco pel troppo gridare; e Damide con un suo risolino sardonico più lo stizziva. E la disputa era intorno a noi. Quel ribaldo di Damide diceva che noi non ci brighiamo punto degli uomini, non riguardiamo a ciò che essi fanno, e diceva insomma che noi non esistiamo affatto. Questa era la sostanza del suo discorso: e v’erano quelli che lo lodavano. Timocle, che stava dalla parte nostra, combatteva a tutta oltranza, s’arrovellava, e con tutti i modi si sforzava di lodare la nostra provvidenza, e dimostrare con quanto ordine e convenienza noi reggiamo e governiamo tutte le cose del mondo. Aveva anch’egli i suoi lodatori, sì; ma era già arrocato, e parlava male, e la gente guardavano Damide. Io vedendo il pericolo, comandai alla notte di scendere e sciogliere la brigata. Se n’andarono adunque, datisi la posta di finir dimani questa quistione: ed io confusomi tra la folla, udivo la gente che mentre se ne tornavano a casa, lodavano fra di loro gli argomenti di Damide, e il maggior numero teneva per lui. Ma ci erano anche alcuni che non volevano condannare anticipatamente la parte contraria, ma aspettare che altro dirà Timocle dimani. Eccovi dunque perchè vi ho convocati: non si tratta di piccola cosa, o Dei, se considerate che tutto l’onore, la gloria, l’entrata nostra sono gli uomini. Se questi si persuadono che noi non ci siamo affatto, o che ci siamo e non ci curiam punto di loro, non avremo più nè sacrifizi, nè doni, nè onori in terra, ce ne rimarremo in cielo a morir di fame, saremo privi di quelle loro feste, delle solennità, dei sacrifici, delle processioni.
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