In cosa di sì grave momento io dico che tutti quanti dobbiamo ora pensare a qualche espediente che ci salvi, e col quale Timocle possa vincere, e dire cose che paiano più vere; e Damide sia deriso dagli ascoltatori: chè io per me non mi fido tanto in Timocle che vincerà da sè, se noi non gli daremo qualche aiuto. Fa’ ora, o Mercurio, il bando, come è uso, acciocchè si levino a dire il loro parere.
Mercurio. Zitto, udite, non fate chiasso. Chi degli Dei vuol parlamentare, che ha l’età giusta ed il diritto? Che è? Nessuno si leva? e tacete sbigottiti al grande e terribile annunzio?
Momo.
Vah, diventate tutti ed acqua e creta.
io, se mi si concede parlar liberamente, io, o Giove, avrei molte cose a dire.
Giove. Parla, o Momo, senza paura: chè tu certo sarai franco per comune utilità.
Momo. Dunque uditemi, o Dei: io vi parlo col cuore in mano. Da un pezzo m’aspettavo che saremmo venuti a questo imbroglio, e che ci sarebbero sbocciati molti di questi sofisti, i quali da noi stessi piglierebbero l’occasione di tanto ardire. Per Temi, noi non dobbiamo sdegnarci con Epicuro, nè coi discepoli e seguaci delle sue dottrine, se hanno questo concetto di noi: perchè che volete voi che essi pensino quando vedono il gran guazzabuglio del mondo, gli uomini dabbene marcire in povertà, in malattie, in servitù; i malvagi e scellerati onorati, straricchi, sul collo ai buoni? i sacrileghi non pure impuniti, ma sconosciuti, e crocifisso e flagellato talvolta chi non ha fatto alcun male? Hanno ragione dunque, vedendo queste cose, a pensare così di noi, come se non esistessimo affatto.
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